Arduino rispondeva sempre con un malcelato fastidio alle richieste di aiuto di Giovanni Battista Terzaghi, il comandante del Presidio dei Carabinieri di Cueva. Era un uomo di una pochezza disarmante: passione poca, altruismo a gocce, cultura limitata a quanto origliato nei bar del paese, cura delle relazioni inesistente, atteggiamento sciatto, andamento da pinguino infreddolito in una lunga notte antartica.
Ma non poteva fare a meno di dare riscontro alle sue chiamate che, negli ultimi mesi, stavano diventando sempre più insistenti. Del Banchetto si era guadagnato una discreta fama in tutta la vallata del Roveto, grazie alla scaltrezza dimostrata nello smascherare diversi manigoldi che avevano imperversato, nell’inverno appena terminato, nel suo borgo e alla risoluzione di un triste e complicato caso nel vicino borgo di Vulcano nel quale, tra l’altro, un collega era rimasto tremendamente offeso, nel fisico e nell’animo, per l’orrore che aveva dovuto sopportare.
Cueva, inoltre, era un’ottima prateria per le sue gite fuori da Cartellino: leggermente più piccola, decisamente meno nebbiosa, sensibilmente più dotata di pittoreschi bar, dove gustare caffè dall’aroma raffinato e trattorie dove far decantare i pensieri al bordo di un tavolo in legno sobriamente agghindato con classiche tovaglie a quadri bianchi e rossi.
La primavera stava scorrendo sotto i suoi occhi in modo ordinato, a Cartellino, e la telefonata della mattina del collega Terzaghi lo aveva, almeno questa volta, incuriosito: Giovanni Battista era un soggetto anonimo, triste, senza passioni. Ma in quei momenti al telefono, solo per alcuni istanti, Arduino aveva quasi carpito un briciolo di umanità, di passione, di arte. Aveva farfugliato qualcosa circa un buco, un muro sfondato; poi aveva insistito su di una stanza, che non avrebbe potuto essere lì dove invece stava limpidamente. E di bare, letti, scrivanie e strane carte chimiche.
<è materia tua, Arduino!> disse alla fine della conversazione in modo mellifluo, ben sapendo che avrebbe solleticato la personalità del collega di Cartellino. Ma ad Arduino parve veramente sincero. E comunque, una placida salita sulle colline prospicenti gli Ausoni non sarebbe stata la fine del mondo: avrebbe controllato se veramente quanto aveva ispezionato Terzaghi, quella mattina, fosse così eccezionale; avrebbe preso appunti; avrebbe fatto domande e, nel caso non avesse rivelato utile la sua presenza a Cueva, sarebbe tranquillamente tornato a casa nel primo pomeriggio. Ovviamente dopo aver sperimentato la cucina di una trattoria del borgo.
Mentre Cartellino è adagiata sul fianco dell’altura che separa la Valle del Roveto dal mare, Cueva è posta su un cucuzzolo che domina il fondo della dolina circostante ed è abbracciata amorevolmente dagli Ausoni, mai troppo alti ed arditi, così come Cartellino ammira dall’alto il Roveto che nell’ampia vallata diviene calmo, con meandri ampi simili alle spire di un grosso e pacifico serpente, dopo aver fatto scorribande nelle forre che da Capistrello conducono aspramente fino a Pedemontana. I monti intorno rallentano notevolmente il fenomeno nebbioso rispetto a Cartellino, e quella mattina Arduino ne ebbe una prova più che evidente: salendo lungo i dolci tornanti poteva ammirare i batuffoli biancastri che oscuravano la vallata e nei quali, poco prima, era immerso. Oltrepassò le prime graziose case e in breve parcheggiò la Fiat 128 nei pressi della farmacia comunale.
Scese, si guardò intorno compiaciuto, fece un centinaio di passi e in breve imboccò la stradina che aggirava la piazza centrale per poi raggiungerla dal lato che dava sul Monte Assolo: era lì che Terzaghi gli aveva dato appuntamento, nella struttura vicina al locale ospedale, una elegante palazzina del secolo precedente, finemente ristrutturata, dove al piano superiore trovavano alloggio diversi anziani senza fissa dimora o disponibilità di sostentamento e al piano terra era ubicata una piccola cappella e un elegante giardino circondato dalle mura in pietra del centro storico del paese.
Era proprio in quel giardino che dovevano passare – almeno così gli era parso di capire dalla telefonata del collega; quindi, avrebbero dovuto scendere in un piano interrato, che fungeva da archivio per la struttura di ricovero e sarebbero arrivati sul luogo del ritrovamento che pareva aver così sconvolto Giovanni Battista.
Lo intravide immobile, lì dove si aspettava di trovarlo: era un uomo banale, non poteva che fermarsi proprio di fronte il grande portone in legno che conduceva all’ameno giardino che dava accesso al sotterraneo. Era all’ombra della chioma di un acero che in autunno donava una miriade di colori con quello che gli amanti della lingua transalpina chiamavano foliage, ma che per i ciociari era un miscuglio di caldi e suadenti colori che annunciavano la stagione fredda. Aveva le mani in tasca e appena vide Arduino cominciò a urlare una serie interminabile di inutili <Buongiorno!>. Inutili per un uomo, come Del Banchetto, che era in piedi, rasato e vestito, da oltre cinque ore.
Che fastidio gli dava quel Giovanni Battista: lo paragonava ad un animale che aveva come unico pensiero quello di dormire al sicuro, svegliarsi al caldo, riprodursi una volta individuato l’esemplare femminile adatto, crescere la prole nel più arido conformismo, avviarsi al crepuscolo con un anonimo e ignobile passo. Mai un sussulto, mai un tremito, sempre tutto così regolare.
A volte Arduino invidiava persino lo stato del collega, perché sembrava in una condizione di tale incoscienza che, pur non facendogli apprezzare le bellezze che l’arte e la natura gli ponevano intorno, gli impediva altresì di soffrire per gli inevitabili scogli che la vita metteva, inesorabile, lungo il percorso.
“Senza passione”, così Arduino apostrofava Terzaghi con i colleghi del Presidio di Cartellino. Perché per lui la passione di scoprire il bello e il perché di ciò che lo circondava era ciò che lo animava. E non concepiva come potesse mancare in altri esseri della stessa specie! E in Giovanni Battista era del tutto assente: doveva incontrarlo, da lì a pochissimi istanti, e questo lo torturava, lo tormentava e gli faceva desiderare di abbandonarlo al suo triste destino quanto prima.
<Buongiorno Giovanni> rispose Arduino porgendogli la mano.
Terzaghi rispose formalmente col saluto militare e facendo un sorriso sgraziato ed inopportuno. Arduino era pronto a tutte le evenienze e non mosse ciglio. Poi introdusse, prontamente, il discorso sui temi a lui più cari:
<Cosa è successo di sconvolgente da chiamarmi in modo così allarmante?> chiese conservando la calma.
<Al tempo, collega carissimo> rispose Terzaghi.
<Non c’è bisogno di anticiparti nulla perché tra pochissimo potrai vedere con i tuoi occhi. Posso solo dirti che a me pare un vero enigma> aggiunse poi.
<Perché? Cosa dobbiamo attendere ancora?> rispose Arduino non nascondendo un certo fastidio.
<Chi, nel caso> rispose il collega. <Sta per raggiungerci Matteo De’ Sassoli Bellis, il curatore dell’ospizio> aggiunse poi.
<Voglio che l’ispezione sia effettuata sotto la supervisione del rappresentante della casata nobiliare proprietaria dello stabile e della intera struttura> precisò Terzaghi.
<Casata nobiliare???> chiese, quasi trasalendo, Arduino.
Giovanni allora spiegò che un’antica dinastia di marchesi, che aveva avuto diversi possedimenti nel territorio di Cueva, aveva donato al comune alcune strutture, tra le quali quella in cui erano ospitati gli anziani che non avevano disponibilità autonoma di sostentamento. E che avevano nominato tutore e amministratore delle loro strutture - tra cui anche un antico convento, una villa in collina, uno stupefacente palazzo nei pressi della Collegiata dedicata al Patrono di Cueva e un castello in località Ambrifi, poco oltre il confine provinciale - un singolare personaggio che gestiva, nel tempo libero, un circolo culturale nella piazza centrale del paese ove si leggevano libri degli autori classici, si gustavano the provenienti dalle più remote lande e si prospettavano teorie per un mondo e un borgo migliori.
“Matteo De’ Sassoli Bellis. Almeno avrò il piacere di incontrare un personaggio singolare: uno con un nome del genere avrà sicuramente qualche tratto caratteriale interessante” pensò Arduino rimirando il cielo turchese che annunciava la bella stagione. Aveva sempre avuto l’abitudine di immaginarsi i caratteri fisici e i lineamenti dei personaggi che doveva incontrare partendo dal nome e dal cognome e quella volta andò veramente vicinissimo a quanto ipotizzato.
Con passo dinoccolato, accompagnato dall’ondeggiare della folta capigliatura, messa in ordine con gesti regolari delle mani almeno ogni cinque metri, il Matteo si palesò dalla parte del vicoletto che conduceva verso la piazza. Già da un centinaio di metri Arduino appurò che indossava indumenti consoni al proprio nome e alla propria origine nobiliare: una ingombrante sciarpa, verosimilmente in seta, gli abbracciava il collo; un’elegante giacca a quadri anglosassoni lo avvolgeva fino al ginocchio; un morbido pantalone, abbinato alla sciarpa, ondeggiava al sicuro incedere lasciando intravedere, di tanto in tanto, le eleganti scarpe laccate adornate dalla classica fibbia, inutile quanto ingombrante agli occhi dell’elegante, ancorché pratico, maresciallo.
Quando arrivò nei pressi dei due sottufficiali, Arduino ebbe la conferma di tutte le sue supposizioni: prima ancora di salutare, tirò fuori dalla tasca interna dell’elegante giacca una bustina contenente dell’ottimo tabacco ed una pipa in radica. E accompagnò i lenti movimenti con l’altra mano, che recava un corposo carteggio.
<Buongiorno maresciallo, e grazie di aver dato riscontro alla nostra richiesta> disse rivolgendosi a Del Banchetto in modo formale e fine.
<Buongiorno a lei, e piacere di conoscerla> rispose Arduino.
<La faccenda mi ha incuriosito fin da subito e vorrei presto venire al nocciolo della questione> aggiunse poi sorridendo al nobile interlocutore.
<Certamente, ma prima di addentrarci nei sotterranei della nostra qui presente proprietà, che ne direbbe di un buon caffè?> disse cominciando ad armeggiare con la pipa e con il tabacco.
Alla magica parola, Del Banchetto rispose evidenziando la notevole attrazione che esercitava su di lui la bevanda esotica, non immaginando cosa poco dopo sarebbe successo nel bar.
Il locale era così diverso dalla bettola di Robertone: casalinga e calorosa la seconda, poco caratteristica e ordinatissima la prima. Il bar, che confinava con il palazzo dei Marchesi De’ Sassoli Bellis era più lungo che largo, era pulitissimo e piuttosto anonimo. Non era arredato in legname, come quello del Saltamerenda, ma in freddo acciaio, lucidissimo. I freddi tavolini in alluminio erano disposti a cadenza regolare lungo tutto il lato lungo che, dall’ingresso, conduceva a un giardino che i gestori utilizzavano presumibilmente solo nella stagione calda. Nel più lontano di questi, verso l’interno, era seduta una bellissima ragazza, formosa e affascinante, che indossava vistosi occhiali da sole - nonostante fosse al chiuso e nonostante il sole non fosse ancora splendente - e un succinto vestitino che lasciava ammirare le armoniose gambe e il prorompente seno che, a fatica, era trattenuto all’interno dell’abito. E aveva tra le mani un corposo libro che stava, più che sfogliando, divorando!
<Tre caffè> disse Matteo alla coppia di signori che sembravano essere i proprietari del bar, così differenti dal trasandato e simpatico Robertone.
<No, io l’ho già preso> quasi urlò a quel punto Terzaghi.
“Capirai, dovessi avere un sussulto di umanità per via dell’eccesso di caffeina” pensò Arduino squadrando l’inutile collega.
<Vede, maresciallo> disse a quel punto il nobile mentre girava il caffè appena servito.
Arduino a quel punto palesò, con lo sguardo, tutto il suo stupore, rilevando con quale quantità di zucchero il ragazzo stesse deturpando il caffè.
<Il primo motivo per cui ho chiamato il suo collega, che poi ha suggerito di interpellare lei, è che questa stanza che tra pochissimo le mostrerò non potrebbe, anzi non dovrebbe, essere lì dove invece palesemente è!> disse poco prima di iniziare a sorseggiare.
<Ma in che senso? Non riesco proprio a capire!> rispose Arduino prendendo la tazzina e avvicinando il caffè, rigorosamente amaro, alle labbra contornate dall’elegante pizzetto.
<Giusto, lei chiede e io le mostrerò> rispose Matteo spiegando il primo foglio del carteggio che aveva ancora in mano fin dal momento in cui si erano incontrati.
<Posso?> chiese alla riccioluta e simpatica proprietaria del bar.
Lei fece un segno di assenso, come se fosse abituata alla peculiare personalità del soggetto che aveva di fronte. Che, velocemente, dispiegò quella che sembrava una planimetria progettuale.
<Vede, maresciallo? Questo è l’ingresso della nostra proprietà in via Regina Margherita, ovvero quella dove ci siamo incontrati> precisò passando ripetutamente l’indice sulla carta.
<Vedo bene. Mi dica> rispose Arduino riponendo la tazzina sul bancone.
<Ecco, da qui si passa in questo androne e si accede al giardino interno. Stupendo, vedrà!> aggiunse guidando la discussione col dito medio della mano destra.
<Poi qui, proprio in questo lato, si apre una discesa con una scaletta a chiocciola in un piano interrato in cui abbiamo tutta la documentazione delle nostre proprietà. Comprende?> chiese.
<Sì, mi pare tutto chiaro. E quindi?> rispose Arduino.
<Ecco, dal progetto risulta chiaramente, non so se riesce a capirlo anche lei da questo elaborato, che il piano interrato da noi usato come magazzino e archivio termina proprio qui, nella proprietà del locale ospedale. Quindi la struttura risale e le fondazioni sono poste decisamente ad un piano superiore; quindi, nel lato corto del nostro magazzino dovremmo confinare praticamente con il terreno di riporto. Non so se mi sono spiegato> concluse indicando la mappa nel punto sul quale voleva attirare l’attenzione di Del Banchetto.
<Sì, mi pare tutto abbastanza chiaro, anche se non sono un geometra. Non capisco però dove sarebbe la questione, il mistero. Ecco, tutto qui…> aggiunse ben sapendo che il suo interlocutore aveva omesso qualche informazione che non era sicuramente da annoverare tra i dettagli trascurabili.
<Esatto, maresciallo: io volevo mostrarle la carta per farle apprezzare il nostro stupore che, credo, sarà anche il suo, una volta che saremo scesi nel sotterraneo e lei avrà visto la stanza> rispose Matteo riponendo la tazzina sul bancone. Conteneva una tale quantità di zucchero che non si era sciolto che Del Banchetto ebbe quasi un conato di vomito.
Arduino annuì, diede un’altra rapida occhiata alla ragazza notata entrando nel bar e soffermandosi sul cofanetto, adornato con bassorilievi di foggia che sembrava antichissima e che era adagiato ai suoi piedi; Matteo pagò i caffè ringraziando la signora e i tre uscirono.
Spinsero il pesante portone in legno, attraversarono l’androne altissimo e in breve si palesò davanti ai loro occhi il bellissimo giardino, dedicato ad una delle donne della casata nobiliare, la marchesa Celeste. Arduino si guardò ripetutamente attorno, passò una mano su un tratto della parete in elegante pietra, accarezzò il verde prato e poi, sotto lo sguardo compiaciuto di Matteo, fece segno che potevano proseguire.
Imboccarono la porticina che conduceva al sotterraneo e scendendo nello stretto percorso a chiocciola Arduino cominciò a porsi mentalmente alcune domande quando, arrivati all'ultimo gradino, ruppe il silenzio che si era creato nel trio.
<Non capisco, Matteo, perché lei parla di una stanza che non dovrebbe esserci e invece c'è: avete forse trovato questa stanza? Ne ipotizzate la presenza?>
Dopo un attimo di pausa, giusto il tempo necessario per tirare la levetta che accendeva i lampadari del sotterraneo, il nobile amministratore rispose misteriosamente:
<Vedrà, maresciallo. Vedrà con i suoi occhi cosa si è palesato questa mattina davanti ai miei, increduli, occhi>.
Attraversarono velocemente il grande archivio, zeppo di faldoni, pergamene, quadri, cornici vuote, suppellettili bronzee fino a quando si fermarono sul lato corto della stanza, dalla parte opposta rispetto al bar. Qui, la parete presentava un grande buco, come realizzato a pesanti martellate: a terra vi erano cocci di mattoni forati, pezzi di intonaco ammalorato, frammenti di tempera giallastra, polvere. E al di là si intravedeva un evidente, ulteriore, spazio.
“Era forse la stanza che tanto aveva impressionato Terzaghi e Matteo?” pensò Arduino massaggiandosi il pizzetto.
<Ecco, maresciallo. Ecco quanto le ho finora descritto: ora può vedere con i suoi occhi> esclamò Matteo indicando il buco nel foro e gesticolando nervosamente. Si sistemò la folta capigliatura, riprese ad aspirare dalla pipa ormai spenta e rimase in attesa di un qualche riscontro da parte del maresciallo.
Del Banchetto lo guardò, poi diede un'occhiata a Terzaghi e quindi chiese:
<Però, scusate: perché avete demolito questo tramezzo se immaginavate di avere al di là solo terreno di riporto?>
<E’ questo il problema> lo interruppe Matteo.
<Noi non abbiamo demolito proprio nulla. Il muro lo abbiamo trovato così questa mattina. E quindi abbiamo scoperto una stanza che non doveva esserci!> rispose il De’ Sassoli Bellis spalancando gli occhi espressivi.
<Ma, il muro sembra demolito dall'interno! I residui del muro sono tutti da questa parte!> osservò Del Banchetto, cominciando ad incuriosirsi.
<Eh...> esclamò abbassando il capo Matteo.
<Una effrazione: la stanza ha un ulteriore accesso> subito disse Arduino.
<Non ci sono dubbi. Avete un qualche oggetto di valore nell’archivio? Che so: un dipinto, un documento nobiliare, un testamento…> chiese poi guardando Matteo insistentemente.
<Magari, maresciallo. Magari...>ripeté il De Bellis.
<Entri e se ne accerti: non vi sono altre possibilità di accedere che non da questo pertugio!>
Arduino si massaggiò il pizzetto e cominciò a rimuginare. Se era vero quanto affermava Matteo, e se ne sarebbe accertato a breve entrando nella stanza, allora l’effrazione era stata realizzata dallo stesso percorso che loro avevano appena concluso partendo da via Regina Margherita. E si convinse, altresì, che chi si era introdotto nell’archivio ben sapeva dell’esistenza della stanza segreta e probabilmente anche che contenesse qualcosa di prezioso, o di importante ancorché senza apparente valore. Perché si fossero presi la briga di simulare uno sfondamento dall’esterno, invece che dall’interno, lo avrebbe cercato di comprendere in un secondo momento. Ma osservando i calcinacci a terra appurò che avevano fatto un lavoro egregio: i segni dei colpi dell’utensile usato per sfondare la parete, probabilmente un grosso martello da cantiere, erano ben evidenti solo sulla parte di mattoni che dovevano essere stati esposti alla stanza segreta, perché erano privi di colore, a differenza della parete che dava sull’archivio che era pitturata di un giallognolo decisamente smorto.
<Non c’è luce qui dentro> disse Arduino cercando di infilarsi nel foro facendo attenzione a non calpestare nulla né a far cadere ulteriori pezzi di muro a terra.
<Maresciallo, Matteo: avete per caso una torcia?> chiese subito dopo sorridendo come se si aspettasse una evidente risposta negativa.
Al contrario, Matteo si allontanò dal buco nel muro e subito dopo tornò con una lampada portatile: era una di quelle lanterne che cercava di imitare gli utensili che si usavano una volta nelle miniere, con la differenza non trascurabile che era alimentata da una piccola bombola di gas in luogo del petrolio. La accese girando la manopola e facendo scattare il meccanismo a scintilla e la passò ad Arduino, che nel frattempo aveva inteso cosa stesse succedendo ed aveva allungato un braccio al di là della fessura.
<Grazie> disse prendendo la lanterna che subito alzò al livello degli occhi facendo luce nella enigmatica stanza.
Che non avrebbe dovuto esserci.
E di questo voleva capirne la ragione.
Cominciò a guardarsi intorno, con occhi sbarrati. Valutò rapidamente le dimensioni della spelonca e appurò che non era più grande di una piccola camera da letto di bambini: al tetto vi era una volta, come quelle di cui erano ricchi i palazzi storici di Cartellino e le pareti erano in eleganti mattoni di terra rossa, intervallati regolarmente da fregi di fattura e natura a lui decisamente oscure. Doveva fare delle foto che avrebbe poi sottoposto al dottor Spirini per un parere. Doveva sicuramente tornare a Cartellino, procurarsi una serie di attrezzature da lavoro investigativo. E tornare. Nel caso anche in compagnia di almeno uno dei suoi colleghi.
Su una parete, quella leggermente più lunga opposta al buco da cui era passato, era incastonata elegantemente qualcosa a lui piuttosto familiare: sì, era originale nelle fattezze, ma era una multicolore tavola periodica degli elementi. Era stata realizzata con piastrelle di quella che sembrava ceramica, con colori diversi a seconda della natura degli elementi chimici. E rimase estasiato!
Si avvicinò con passo lento e rispettoso, passò una mano sul mosaico e quasi accarezzò tutto il gruppo dei metalli alcalini, poi degnò di profonda attenzione anche gli alcalino – terrosi e infine si concentrò sui gas nobili. Sorrise ammirato di fronte a tanta precisione e bellezza, ma si scoprì nuovamente sorpreso quando si accorse che alcune tesserine erano mobili: esercitò una leggera pressione su una di esse e notò che poteva ruotare attorno ad un asse verticale, posto in posizione mediana rispetto alla tessera che sul retro recava un simbolo completamente diverso da quello che era inciso sul fronte.
Non fu affatto distratto dai continui richiami di Terzaghi e Matteo e si concentrò accuratamente su tutti gli elementi, per verificare quanti fossero quelli mobili. Ne contò dieci, ripercorse il controllo a ritroso e confermò la correttezza della verifica.
Gli elementi mobili erano dieci, sparsi apparentemente a caso in tutta la tavola, senza alcun senso. Almeno non così evidente.
Poi fece un passo indietro, la rimirò attentamente e si rese conto che diverse cose non erano al posto giusto.
Ma non ne era sicuro, troppo lontani nel tempo erano gli anni del liceo per poter fare affidamento solo alla propria memoria; serviva un professionista, uno scienziato.
Serviva il parere del dottore. E pensò, girando la lampada verso la seconda parete, che lo avrebbe portato lì. Non sapeva perché, ma quella stanza lo stava ammaliando. E aveva un disperato bisogno di studiarla.