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Sole 1 – 21 giugno 1987

2025-08-31 16:43

Riccardo Viselli

I MIEI LIBRI, la lettrice,

Sole 1 – 21 giugno 1987

Cartellino ammira gli Ausoni da sud e dalla Piazzetta assomigliano ad un grosso animale che riposa

Cartellino ammira gli Ausoni da sud e dalla Piazzetta assomigliano ad un grosso animale che riposa, adagiato sulla valle come in attesa della frescura della sera. Le poderose spalle sorreggono le cime maggiori che degradano dolcemente verso settentrione ove, su di un ultimo cucuzzolo, sorge il caratteristico Oppidum dei Volsci, che Cartellino un poco invidia per la stupenda posizione da cui domina e contempla tutta la pianura del fiume Mastello, che poco più a valle si getta impetuoso nel Roveto per poi formare un placido laghetto che chiude la vista e aumenta la bruma, in estate ma soprattutto in inverno. I bambini disegnano i monti con i colori del verde e del marrone, ma gli Ausoni appaiono sempre di un pallido blu, confusi come sono con il cielo che sovrasta la Ciociaria e si perde, dietro di loro, verso il mare. Solo nei più rigidi degli inverni, ogni tanto, si colorano di bianco e fanno tenerezza, perché cercano di imitare le alte cime del lontano Appennino che da qui sembrano monti di un altro pianeta.

Non è agevole esplorarli, nonostante le basse altitudini che raggiungono, perché sono irti di vegetazione a tutte le quote, fitta e spinosa, e sono battuti incessantemente dal sole dall’alba al tramonto. Nel semestre caldo la stella li arroventa e nemmeno sulla loro sommità si riesce ad apprezzare il refrigerio che ci si aspetta e si pretende dalla montagna. La gente del posto chiama il Calvilli, la loro maggiore elevazione, ora “i’ muntagnon”, perché da lontano sembra imponente, sembra incutere timore, sembra irraggiungibile, ora “monte mare”, perché è da lì che si può apprezzare il vicino Tirreno, soprattutto in autunno ed in inverno quando la foschia non impedisce alla vista di perdersi lontano. Attraverso il colle di Cartellino sembrano unirsi, verso sud, con una catena ben più modesta che degrada verso il lago ed è chiusa e presidiata da una Donna, che ti guarda e si fa guardare e che ti accoglie anche se non riesci ad apprezzare, fisicamente, le sue amorevoli braccia.

Sono dominati dalla tipica vegetazione mediterranea, nutrita dal vitale respiro del mare, ma non rare sono distese di aglio selvatico e aconito napello, attraversate senza timore da cinghiali e volpi, da istrici e faine. E i radi alberi di maggiore fusto si raggruppano quasi ovunque a formare piccoli boschetti dove domina incontrastato il Sorbo degli uccellatori. I piccoli erbivori durante le notti, sempre calde come i giorni, ben si guardano da attardarsi nelle radure, perché sarebbero alla mercè dei numerosi ed artigliati predatori notturni, soprattutto alati, che popolano queste alture da tempi immemorabili.

Non vi sono tracce di uomo, sembra che qui la natura ci abbia respinti: ci abbiamo provato, forse nel Medioevo, ma ci siamo dovuti arrendere. E la testimonianza della nostra presenza la si rileva ai piedi di questi monti, in pieno bosco, in località Ambrifi, dove un maestoso castello, miracolosamente ancora intatto anche se disabitato, si mostra in tutta la sua potenza e magnificenza, stranezza e inquietudine. Il piccolo borgo di Cueva è poco distante, ma dalla radura antistante il maniero sembra irraggiungibile, in posizione remota, inesistente: pochi tornanti tra pendii verdi e boscosi sembrano inoltrare i corpi e le menti indietro nel tempo e sentimenti di pace che donano i monti si alternano, spesso, a pensieri foschi che ispira il castello. Perché è evidentemente abbandonato, ma in perfetto stato come se un marchese devoto e attento ne curasse la struttura e l’aspetto, senza sosta, da mille e più anni.

La fortificazione, perché per questa ragione sembra stata evidentemente eretta, ha un aspetto singolare: la pianta è pentagonale ed è presente una sola torre, alta e sottile. Risulta facile immaginare che assolvesse in modo perfetto alla sua funzione, ovvero consentire agli armigeri, dalla parte sommitale, di allungare lo sguardo fino al mare dal lato occidentale e fino ai monti abruzzesi da quello orientale. L’alta torre, di pianta quadra, è posta sul vertice del pentagono che si spinge a settentrione e questo settore è ricoperto da una folta vegetazione, costituita sempre da Sorbo, adagiata su un sottile strato di muschi che hanno trovato fertile terreno sulle possenti pietre calcaree di cui è costituita. Non mostra segni del tempo. Quanti terremoti avranno attraversato gli Ausoni e la valle nei secoli, quanta morte e distruzione avranno seminato. Eppure, la struttura, che sembra così esile ed indifesa, è ancora lì, memoria di perizie che sembrano non essere soggette alle ferree regole della vetustà. Ha merlature efficaci e solo quattro finestrelle, poste su ognuno dei quattro rettangoli che formano la superficie laterale del calcareo parallelepipedo a circa tre quarti dell’altezza della struttura.

Sono lì, ora, la osservo con la testa piegata sgraziatamente verso l’alto e immagino la ripida scalinata che conduce alla terrazza sommitale, che sale nel buio; la fatica e la prolungata assenza di luce è il prezzo da pagare una volta giunti in cima dove si può liberare la vista e farla godere in ogni direzione.

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